di Alex Cizmic – Avvenire.it
Assegnato il primo storico scudetto femminile di un campionato che conta ben 21 squadre e che segna il riscatto delle sudanesi: «Così riusciamo a far sentire la nostra voce contro i soprusi»
Il 3 giugno 2019 un’offensiva delle Rapid Support Forces sudanesi, un gruppo paramilitare facente capo al governo, squarciò il cielo di Khartoum. Piovvero colpi d’arma da fuoco che tinsero di rosso il Nilo. Nel punto in cui convergono gli affluenti Bianco e Blu del grande fiume della civiltà egizia galleggiavano senza vita decine delle circa 400 vittime del massacro. Il sit-in che da un paio di mesi dal centro della capitale sudanese dava voce alle istanze della popolazione era stato silenziato. Furono decine anche gli stupri registrati quel martedì e nei giorni successivi a danno di uomini e donne. Quel raid assunse le sembianze della fine. La fine della spinta rivoluzionaria e delle lotte della società per un Sudan più democratico e inclusivo. Ma l’ancien régime e la fetta più conservatrice della società non avevano fatto i conti con la forza dirompente del movimento, guidato principalmente dalle donne.
A settembre 2019 si è giunti a un accordo con l’esercito: un governo di transizione democratica della durata di tre anni, composto per due terzi da civili e per un terzo da militari. Nell’accordo un ruolo decisivo lo hanno giocato proprio le sudanesi, il vero motore della rivoluzione scoppiata nel dicembre 2018 che aveva posto fine al regime di Omar Al-Bashir. «Sono stata stuprata, ma non me ne vergogno», gridavano numerose per le strade di Khartoum nei giorni successivi al massacro. Le donne sudanesi non hanno permesso che il governo usasse ancora una volta i loro corpi per metterle a tacere. Si sono unite rapidamente in un grido di dolore collettivo, mettendo la loro rabbia a servizio della grande battaglia per la parità di genere, e con un enorme spirito di solidarietà hanno rimesso in moto il movimento di protesta. E lo hanno fatto impossessandosi anche di quegli spazi storicamente considerati di proprietà esclusiva degli uomini. Su tutti il calcio, àmbito in cui già da tempo qualcosa si stava muovendo.
«Giocando a calcio entriamo nel mondo degli uomini e facciamo valere il nostro diritto di espressione», afferma Merfat Hussein, presidentessa dell’associazione calcistica femminile, un ramo appartenente alla federazione sudanese di calcio. Il 30 settembre, qualche settimana dopo la formazione del nuovo governo, ha preso il via il primo campionato di calcio femminile della storia del Sudan. In campo per la prima partita Difâa e Al-Tahadi, la prima società sudanese di calcio femminile fondata nel 2003.
Dal nome si può evincere come chi fondò il club fosse conscio degli ostacoli che le donne avrebbero dovuto superare per poter esprimere la loro passione per questo sport. Letteralmente tahadi significa «sfida», un termine che descrive adeguatamente l’odierna battaglia delle donne sudanesi. In primis la sfida culturale, destinata a estendersi nel tempo. Se la gioventù è pronta e aperta al cambiamento, non è stato e non sarà semplice scalfire il muro del patriarcato delle vecchie generazioni, che si intreccia con l’interpretazione più rigida e conservatrice della religione islamica e si alimenta di continue discriminazioni e manifestazioni contro le donne calciatrici.
L’ultima domenica scorsa per le strade di Wad Medani nello Stato di Gezira, dove un manipolo di militanti islamici ha scandito slogan come «Mia sorella non deve giocare a calcio», seguiti dagli insulti più beceri nei confronti delle donne che vanno contro questo precetto. «A chi ci critica noi rispondiamo continuando a giocare a calcio e mettendo solide basi per il futuro», fa sapere la Hussein, prima donna a entrare nel direttivo della federazione.
In secondo luogo la sfida organizzativa. Inizialmente erano solo due i club disposti a partecipare. Non c’erano tornei da cui attingere. Per poter mettere in piedi il campionato, dunque, alle 47 federazioni locali che compongono il mosaico calcistico sudanese è stata inviata una lettera in cui veniva comunicata la volontà di dare vita al primo campionato femminile e la necessità di creare delle squadre.
La capitale Khartoum e le principali città del sud hanno accolto l’invito e hanno assecondato i desideri della neonata associazione, che conta ad oggi 420 ragazze regolarmente registrate. Il profondo nord, più chiuso e conservatore, non ha contribuito, tant’è che delle 21 squadre partecipanti alla prima edizione nessuna proviene dalle regioni settentrionali. «Al nord sono convinti che le ragazze non debbano giocare a calcio. Abbiamo mandato loro video e messaggi esplicativi, anche attraverso alcune calciatrici. Speriamo di poter cambiare la mentalità», continua la Hussein.
Ottenuta l’adesione delle neonate squadre e incassato l’appoggio del nuovo governo nella persona della Ministra dello Sport Essam Al-Boushi, il campionato ha potuto svolgersi regolarmente. Fondamentale il contributo economico dei principali sponsor, la compagnia aerea nazionale Tarco Aviation e Bank Al-Amal, e di donatori privati che sopperiscono alla misteriosa mancata ridistribuzione dei sussidi Fifa da parte della federazione.
Da sottolineare, inoltre, la visibilità offerta dai media – ora più liberi – che hanno dato ampia copertura al torneo. Il 21 dicembre scorso si è disputata la finale tra le due società che qualche mese prima avevano tagliato il nastro della prima edizione. Se in quel 30 settembre era contemplato il pareggio – la gara finì 0-0 – la finale ha dovuto eleggere obbligatoriamente una vincitrice: il Difâa si è imposto per 1-0 e ha conquistato il primo titolo nazionale. Il giorno successivo è stata comunicata la prima lista di convocate per la nazionale, invitata dalla federazione tunisina a disputare due amichevoli nel mese di gennaio. «Il calcio è per noi una scuola di vita, ci rende più sicure di noi stesse. È tempo per le donne di cambiare la mentalità di questo Paese e costruire un nuovo Sudan», conclude Merfat Hussein.
Lo strappo nel cielo di Khartoum sembra essersi ricucito. Al rosso sangue che nel giugno 2019 macchiò il letto del Nilo è stata data un’altra sfumatura. Quella della passione di centinaia di donne amanti del calcio e decise a prendere in mano la propria vita.